Animali tecnicamente insoddisfatti

Se visitate il sito www.vonnegut.com trovate il disegno di una gabbia per uccelli aperta. Un anno fa il signor vonnegut ha lasciato questo buffo luogo di “quieta disperazione”, e se ne e’ volato via. Ha dimenticato pero’ qui i suoi libri, che non sono poca cosa tutto sommato. Deve essere sempre stato un uomo distratto, e molto gentile. Prima che torni a prenderseli, approfittero’ di questa sua sbadatezza.
Da un po’ di tempo mi ritrovo spesso a rimuginare sul rapporto tra l’uomo e la tecnica. Tecnica intesa come il tostapane, il computer, l’uranio impoverito, le cellule staminali, e via di questo passo per tutti quegli strani oggetti organici o meno di cui ci circondiamo, o che ci circondano. Il signor vonnegut ha riempito i suoi libri di pensieri intelligenti e riflessioni interessanti sugli argomenti piu’ disparati, perfino sul rapporto tra l’uomo e la tecnica.

Mi piace l’idea di usare un paio dei suoi testi per aiutare la mia lenta digestione di questa problematica. E come mentina prima del digestivo vorrei tentare di inquadrare il problema, utilizzando un pezzetto di un filosofo, che su questo tema ha speso parte della propria riflessione.

Si tratta del capitolo “Legge e caso” dell’omonimo libro di Emanuele Severino. In quaranta pagine partendo dall’antica Grecia, ed impregnando tutto con il suo adorato Parmenide, l’autore delinea un quadro molto preciso sul significato della tecnica nell’era moderna.

La tecnica ha preso il posto della divinazione. La scienza serve a predire il futuro, ad interpretare l’indeterminismo, il caso. Colma un vuoto, una mancanza. Oltre che stampella fisica, assolve anche ad una funzione quasi esistenziale, o quanto meno psicologica.

L’origine della realta’ sta nel divenire, nel momento caotico che innesca la spirale di vita e morte, due entita’ collegate in maniera indissolubile. Il divenire e’ tuttavia anche quell’elemento di casualita’ che terrorizza l’uomo.
Per placare il divenire quest’ultimo dapprima utilizza degli oggetti immobili, contrasta insomma la dinamicita’ con il suo contrario.
L’episteme, la conoscenza che sta ferma, si traduce in pensieri e concetti immutabili, che arginano il divenire, lo piegano alla proprie regole. Di volta in volta l’uomo evoca dio, l’autorita’, la morale, il bello, il bene, l’ideologia, l’economia e via di questo passo.

Nulla pero’ funziona, per colpa di un’idiosincrasia di fondo: l’episteme e’ talmente ferma, che cancella la possibilita’ del divenire, e questo crea una sorta di corto circuito. Il principio assoluto che dovrebbe mettere ordine, finisce per essere insufficiente e si trova di fronte al problema di estinguere la realta’ uccidendo il divenire, oppure ammettere la propria inadeguatezza e soccombere. Piano, piano, cadavere dopo cadavere arriviamo al nichilismo, alla morte di tutti gli assoluti.

E’ a questo punto che si inserisce la scienza. In maniera astuta, dichiara il proprio carattere sperimentale, il proprio stato di inadeguatezza, sembra quasi che ne faccia un vanto.

La scienza non ordina il divenire, si limita a metterlo alla prova, lo studia, e non si vergona di ammettere i propri insuccessi. La scienza contempla l’errore, sa che il mondo viene dal niente, e che il nulla, in quanto tale e’ imprevedibile. Tutto cio’ che fa e’ sperimentare e raccogliere i dati di questa sperimentazione, per formulare delle ipotesi. Un’ipotesi non e’ un assoluto, e’ soltanto un meccanismo che mi permette in base ad un certo numero di esperienze, di pensare che una certa cosa andra’ in una determinata maniera. Ma questa ipotesi va continuamente verificata. Di piu’, la scienza e’ la prima ad ammettere che i risultati ottenuti funzionano soltanto per convenzione, in ambienti formali, e che e’ l’indeterminismo a farla da padrone. Tanto che nella fisica quantistica l’indeterminismo viene a sovvertire la logica del vero e falso, inserendo un terzo incomodo, l’inderminato, per l’appunto.
Tutto questo conferisce alla scienza un grande potere, poiche’ si conforma a quel senso del divenire che rappresenta la realta’.
Non cerca di spegnerlo, ma di interpretarlo, ed e’ sulla base di questa interpretazione che costruisce il proprio dominio.

Nel suo primo romanzo Vonnegut parla proprio di dominio della tecnica. Non in maniera cosi’ raffinata a dire il vero, ma con quell’impronta umoristica che rende piacevole tutta la sua opera.

In Player piano (in italia uscito col titolo Piano meccanico), il mondo e’ dominato dai tecnici, la maggior parte dei lavori sono stati meccanizzati, e uno stato ben ordinato si prende cura degli esuberi di manodopera. La societa’ si divide in quattro macrogruppi: i tecnici e i manager, quei piccoli lavori artigianali impossibili da appaltare ad una macchina, il Corpo bonifica e ricostruzione (anche noto come Relitti e Puzzoni) e l’esercito.
Il primo gruppo e’ il motore della societa’ poiche’ e’ in grado di competere con le macchine, le costruisce, delinea le strategie di produzione. Il secondo e’ una sopravvivenza, che tende ad estinguersi, mano a mano che vengono create macchine in grado di soppiantarla. Il terzo ed il quarto rappresentano la maggior parte della popolazione. I Relitti e Puzzoni sono caratterizzati da un livello non sufficiente di QI. Il quoziente di intelligenza e’ l’unica risorsa che distingue un uomo da un altro e permette la mobilita’ sociale.

Nel 1932 veniva pubblicata la prima versione del famigerato test Wais, il test di QI piu’ utilizzato al mondo.
Quando nel 1952 Vonnegut scrisse Player piano dovevano esserci schiere di sociologi entusiasti che andavano in giro a misurare il QI di grandi e piccini.

L’america di Piano meccanico e’ pacificata, ed economicamente tutto sommato giusta. Nessuno muore di fame, uno stato tecnocratico si occupa di tutti, a chi non ha un lavoro ne viene assegnato uno da macchine che scelgono in base al QI ed al curriculum di studi. I relitti e puzzoni fanno un po’ quello che Keynes definiva “scavare buche per poi ricoprirle”. Anche l’esercito si compone in realta’ di macchine, i soldati sono semplicemente preposti alla loro manutenzione e funzionamento.
La tecnica ha scalzato gli elementi caotici, gli imprevisti, ma sopratutto ha castrato le potenzialita’ dell’individuo, irrigimentando il suo percorso esistenziale. L’uomo e’ piu’ sicuro, ma le proprie sicurezze concernano essenzialmente il fatto che al termine di una vita vuota e ripetitiva, passata per buona parte davanti al televisore, morira’. Nel romanzo Vonnegut stigmatizza due aspetti dell’american way of life: la competitivita’ e la cieca fiducia nel progresso scientifico.

Il test del QI e’ un generatore d’ansia e di competitivita’, tutti i rapporti sociali tra le classi privilegiate sono caratterizzati da una mentalita’ di questo tipo. Chi non supera il test del QI, puo’ rilassarsi e andare alla deriva nel proprio vuoto esistenziale, ma gli individui migliori della societa’ devono continuare a competere per mantenere alto il livello. Vonnegut utilizza una serie di immagini e situazioni comiche molto efficaci per descrivere questo tipo di tensione. E tanto piu’ dissacranti dovevano apparire agli occhi di un americano, dato che toccano degli aspetti del loro quotidiano, che io colgo sopratutto per conoscenza indiretta, e perche’ bonta’ loro dal dopo guerra ad oggi, ci hanno deliziato con mille e mille serial televisivi, sitcommedy, film e cartoni animati, ambientati nei loro college, tra le loro partite di baseball e di football.

Il progresso tecnico/scientifico e’ invece una presenza che permea la civilta’ occidentale dal 1900 in avanti, non bisogna fare nulla per confrontarvisi, e’ lei che ci viene a cercare. Vonnegut non poteva ancora prevedere gli sviluppi dell’informatica, ma gli appariva chiaro che la societa’ avrebbe affidato gran parte di se’ stessa alle macchine.

Nel libro compare EPICAC VIX, una parodia di quello che negli 50 doveva apparire l’evoluzione dell’informatica. Prima infatti della svolta della microelettronica, i computer erano enormi, occupavano un sacco di spazio, e prendevano i nomi sul modello del vaticano o delle case reali.
Proprio nel 1952, l’anno di pubblicazione del libro, ad Hardware prendeva vita Mark IV, l’ultimo di una serie di calcolatori iniziata con il Mark I, il primo computer digitale automatico. Vonnegut deve essersi ispirato a questo scenario partorendo l’EPICAC.

Ma tutta questa parte e’ forse, come spesso accade nei libri di Vonnegut, la meno interessante e la meno curata. E’ l’impianto antropologico, la visione disincantata e melanconica delle vicende umane, che rendeno cosi’ piacevoli ed interessanti i suoi romanzi. Il disagio esistenziale, il non riuscire a dar sfogo alle proprie potenzialita’, il vivere una vita castrata, ed incompleta, sono sentimenti del tutto normali del nostro quotidiano. Il disagio non nasce dall’essere stati soppiantati da delle macchine, forse per qualcuno e’ anche cosi’, ma per molti di noi, e’ piuttosto un generico senso di inutilita’ e di vuoto. Un’incapacita’ di realizzarsi
in un luogo nel quale alla morte di tutti i valori non e’ seguita una fase di ricostruzione. Non e’ seguita perche’ nessun rinnovamento e’ stato concesso alla nostra societa’, che muta si’, ma mai nella sostanza, soltanto le forme esteriori paiono trasformarsi nel tempo. In questo senso il nostro e’ un regno meccanico, gestito da mille orologiai pazzi, in lite tra di loro.

Il libro si conclude con una rivolta non riuscita, un manipolo di insoddisfatti dirige un’improbabile assalto alle macchine. La ribellione sara’ una sorta di enorme sbronza collettiva, un saturnale nel quale si sfoga il proprio disagio, senza alcuna possibilita’ di superarlo. La quarta di copertina dell’edizione della Feltrinelli si lancia in un’ardita interpretazione di questo epilogo. “Un romanzo antiutopico che mette in scena la rivoluzione in un mondo dominato dalle macchine, per mostrare quanto essa sia futile se non si accompagna alla disincatata cognizione dei sentimenti umani e degli scopi. I rivoluzionari non saranno battuti dai loro nemici ma da se stessi e dagli uomini che sognavano di liberare”. Francamente credo che sia la traduzione di una quarta di copertina americana, perche’ non mi spiego altrimenti in italiano l’espressione “cognizione dei sentimenti e degli scopi”. In ogni caso e’ una pessima copertina. La ribellione occupa le ultime 20 pagine del libro, ma dalle righe sopra riportate sembra che il testo sia il racconto epico di una lotta tra l’uomo e la macchina, tipo terminator, ma senza lieto fine.

Quello che Vonnegut mette in scena non e’ la rivoluzione contro le macchine, ma pezzi dell’america anni ’50. Quando descrive una casalinga depressa che passa la giornata di fronte alla televisione, e si distrae facendo il bucato a mano, mentre i propri figli sono a guardare a loro volta la televisione dai vicini, e’ di una casalinga americana degli ’50 che sta parlando, anche se proiettata nel futuro del mondo dominato dalla macchine.
Cosi’ come quando irride l’atteggiamento competitivo dei manager, l’arrivismo come forma mentis in un sistema che ha come obbiettivo la scalata sociale, l’arrivare in cima ad ogni costo. L’assetto sociale e’ rigido, perche’ basato su un fattore come il QI, e questo e’ spesso lo spunto per una critica semi seria ai costumi dell’america cosi’ come appare agli occhi di Vonnegut negli anni ’50, dove sono i soldi a farla da padroni.

Come spesso accade in Vonnegut il contorno della narrazione diviene la scusa per una trattazione malinconicamente divertita delle miserie umane. In questo primo, acerbo Vonnegut, la tecnica appare il giochino ideale per quella che in Galapagos, un opera ben piu’ matura, definira’ “l’era dei cervelli troppo grossi”. La scienza e’ quanto dopo diverse migliaia di anni di storia umana i nostri cervelli troppo grossi e complicati hanno partorito per interpretare il caso, per cercare di avvicinarlo ed inseguirlo nei suoi percorsi arzigogolati tra il niente e il nulla. Per questo viviamo “in preda ad una cieca disperazione”, per colpa “dell’unico, vero furfante ch’io tiri in ballo in questa mia storia: ossia il cervello umano di proporzioni esorbitanti … perche’ gli infernali computer racchiusi nel cervello della gente ignoravano cosa fossero la moderazione, l’inerzia, la pigrizia; e imponevano a ritmo spietato problemi estremamente ardui in numero affatto superiore a quelli che la natura era in grado spontaneamente di creare”.

Per concludere, rimettendo tutto in discussione, riporto un brano di un libro di qualche anno fa regalatomi di recente, Il codice dell’anima di James Hillmann. Si tratta di un filosofo e psicoanalista junghiano, che a partire dal nostro mondo di simboli inespressi, di vuoti di senso e di potenzialita’ mancate, indaga proprio quell’ansia di qualcos’altro, che sembra tormentare i personaggi di Player piano. Hillman cerca di spiegare i limiti della tecnica e della scienza rispetto all’universo simbolico piu’ ricco che ritroviamo in miti, fiabe e leggende. Quest’ultimi parlano meglio al nostro inconscio, alla nostra psiche, poiche’ dialogano sullo stesso piano. La scienza agisce su un livello diverso, non e’ in grado di parlare all’anima, alla parte piu’ antica e riposta di noi. Leggendo queste righe bisogna tenere presente che l’anima di Hillman, ed in generale della psicoanalisi junghiana, va intesa come immagine archetipica, non con il significato dogmatico che gli attribuiscono la maggior parte delle religioni.

“I miti cosmogonici ci situano nel mondo, ci coinvolgono nel mondo. Le cosmogonie moderne (big bang e buchi neri, antimateria e spazio curvo in continua espansione senza meta) ci lasciano nel terrore e nell’incomprensibilita’ priva di senso. Solo eventi casuali, niente davvero necessario. Le cosmogonie della scienza non parlano dell’anima e dunque non parlano all’anima, non le dicono nulla sulle ragioni della sua esistenza, come sia posta in essere e quale sia la sua destinazione…
Le entita’ invisibili dell’universo fisico non possono essere conosciute ne’ percepite, ma solo calcolate, perche’ sono lontane anni luce e perche’ sono, per definizione indeterminate… Il mito della creazione di essere casuali in uno spazio inimmaginabile mantiene l’anima occidentale sospesa in una stratosfera dove essa non puo’ respirare. Non sorprende che continuiamo a rivolgerci ad altri miti…”

Kurt Vonnegut, Piano meccanico, Feltrinelli
Kurt Vonnegut, Galapagos, Bompiani
Emanuele Severino, Legge e Caso, Adelphi. Il primo capitolo molto interessante, la seconda parte molto noiosa
James Hillman, Il codice dell’anima, Adelphi

No Responses to “Animali tecnicamente insoddisfatti”

  1. ZioMimmo » Scetticismo cosmico Says:

    […] della scienza come sistema per creare nuovi assoluti, quando mi sono imbattuto in questo articolo che mi fa piacere riproporvi. Buona […]