Contributi fiorentini (II parte)

Qui di seguito ci sono gli appunti sbobinati dall’intervento di Giuseppe Campesi (universita’ di Bologna) durante un’iniziativa sulla paura/sorveglianza/controllo all’universita’ di Firenze. Di Campesi potete trovare on line un’interessantissima tesi dal titolo “Il controllo delle ‘nuove classi pericolose’ – Sotto-sistema penale di polizia ed immigrati“. La tesi contiene in realta’ un’ampia introduzione sulle teorie del controllo sociale. Dello stesso autore leggete anche “Genealogia della pubblica sicurezza. Teoria e storia del moderno dispositivo poliziesco”

Uno dei filoni delle attuali strategie del controllo persegue la responsabilizzione della societa’ civile per i rischi che corre. In particolare c’e’ un filone della criminologia, detto della vita quotidiana, che si propone di studiare la vittimizzazione, ovvero il rischio di essere vittima di un reato. Queste teorie usano catalogare i fattori di rischio in base allo stile di vita di una persona, alle caratteristiche personali. Il principale target sono i soggetti cosidetti deboli (donne, anziani, bambini). Questo discorso criminologico investe per intero la vita dell’indivuduo, che e’ costretto a riconsiderare tutta la propria esistenza, a porsi problemi del tipo come vestirsi quando esce per non essere aggredito, dove andare, quando, con quali dispositivi di sicurezza difendere il proprio quartiere, la propria casa, il proprio corpo. Anche se queste idee sembrano lontane e differenti rispetto al classico sistema disciplinare trattato da Foucault, l’effetto che perseguono e’ del tutto simile. Nella criminologia classica ci si occupava del solo criminale, qui invece si sposta l’attenzione su tutta la societa’ e sull’intero spazio urbano, che si devono rinormare secondo standard di sicurezza diversi.

Analizziamo ora le trasformazioni dello spazio urbano legate al controllo a partire da quattro autori che hanno riflettutto sul problema disciplina e sicurezza.
L’impianto disciplinare classico descrive forme di controllo operate in luoghi ben precisi, gli operai nelle fabbriche, gli studenti nelle scuole, i matti in manicomio, e via di questo passo. Deleuze negli anni ’90 parla invece di forme di controllo ultrarapide all’aria aperta per descrivere le tecniche di controllo che si svolgono al di fuori delle istituzioni chiuse, e si sviluppano fino ad investire ogni spazio urbano. Hardt e Negri, in Impero, accostano questo modificarsi del sistema di controllo ai mutamenti nel sistema produttivo, da un regime produttivo fordista, si passa ad uno piu’ immateriale, che supera e sostituisce l’istituzione della fabbrica. “I dispositivi disciplinari sono sempre meno limitati e circoscritti in uno spazio”. Alessandro De Giorgi nel “Governo dell’eccedenza” riprende questa tesi e la adatta alla trasformazione dell’istituzione carcere. Secondo De Giorgi il regine postfotdista necessita di meno lavoro in termini di quantita’ di manodopera impiegata, e diviene piu’ centrale il lavoro immateriale, il lavoro intellettuale. Si passa dunque da un regime basato sulla carenza, ad uno basato sull’ecccedenza. La carenza del fordismo si puo’ leggere sia in chiave di carenza numerica della manodopera per alimentare la grande fabbrica, sia come carenza, insufficienza dell’operaio rispetto ai tempi, ai ritmi della produzione. Per questo l’operaio andava disciplinato e abituato a sostenere ritmi di lavoro sempre piu’ alti (guardate la classa operaia va in paradiso). L’eccedenza postfordista invece assume due accezzioni: una positiva, legata all’abbondanza della produzione immateriale, che eccede la capacita’ di controllo del capitale. L’altra negativa legata al sovrannumero della manodopera. La deindustrializzazione ha reso inutili in un certo senso vaste porzioni di popolazione. Il mercato si e’ dunque trasformato per gestire questa eccedenza, e’ stato reso flessibile, precario. Nella societa’ fordista il cittadino era tale in quanto lavoratore, cio’ che sperimentiamo oggi e’ una situazione di cittadinanza politica, senza alcuna partecipazione alla vita economica, o con una partecipazione limitata, sempre esposta al rischio. Le strategie di controllo servono a governare questo sistema delle eccedenze. Questa lettura e’ dichiaratamente neo marxista, ovvero lega le trasformazioni del controllo sociale ai cambiamenti del ciclo produttivo. Questo tipo di analisi e’ stimolante da un lato, ma incompleta per molti versi. E’ utile per la comprensione del fenomeno fare riferimento ad altri ipotesi. Il riferimento al lavoro immateriale porta i teorici neomarxisti ad incentrare il controllo su alcuni aspetti particolari, tralasciandone altri. E’ utile forse chiarire il concetto di lavoro immateriale. Si intende con questo una somma di fenomeni: la deterritorializzazione del lavoro, la catena di montaggio globalizzata, l’espansione geografica del ciclo produttivo ed insieme l’effettiva immaterialita’ del prodotto. Parte del mercato e’ volta a produrre strumenti di comunicazione, informazioni, beni immateriali insomma. Il controllo della catena di produzione avviene spesso in luoghi lontani dall’effettiva produzione, attraverso strumenti informatici. Questo modo di produrre genera un mercato parallelo, detto dei servizi avanzati. Prendiamo per esempio una multinazionale che opera in dieci nazioni diverse. Per produrre/vendere sottostando all’apparato normativo di tutte e dieci i paesi, necessita di una serie servizi aggiuntivi che non hanno a che fare direttamente col ciclo produttivo. Le attivita’ analitiche e simboliche si fanno sempre piu’ complesse e tendono ad informatizzarsi. Tutto questo sembrerebbe dar ragione a chi parla della societa’ postfordista come di una societa’ dell’informazione.
Le teorie del controllo applicate/sottomesse a questi flussi di informazioni consentono di parlare di “rete fluttuante di controlli” (Negri/Hardt). Questa analisi mette pero’ a fuoco soltanto una parte del problema. La possiamo usare con efficacia per comprendere il controllo all’interno del cyberspazio, nell’universo immateriale, ma esiste un controllo che ha a che fare con le persone “materialmente”, e rimane ai margini di queste teorie.
La fortificazione dello spazio urbano a cui assistiamo nelle nostre citta’ sono un aspetto tutt’altro che immateriale. Saskia Sassen conia il termine “citta’ globale” per indicare una megapolopoli nella quale si concentra un certo potere economico, un luogo decisionale all’interno dei processi di produzione globalizzati. Alla dispersione del processo produttivo ha fatto seguito una concentrazione del controllo, che si e’ insidiato nelle citta’ globali. La produzione delocalizzata necessita’ di servizi aggiuntivi talmente avanzati che la loro convergenza in un unico luogo diventa fondamentale per il governo dell’economia. Prendiamo come esempio Milano. Oltre a sedi di multinazionali, troviamo sedi di importanti studi legali, societa’ contabili, di marketing, ecc… Le citta’ globali ospitano dunque sia l’elite impiegate nei servizi avanzati, sia tutte quelle persone che materialmente rendono possibile l’esistenza stessa della citta’ e svolgono lavori fisici (facchinaggio, pulizia, ristorazione, negozianti). Questo comporta una segmentazione della citta’: da un lato un elite molto ricca che per vivere a bisogno di un segmento di lavoratori piu’ poveri, che a loro volta hanno bisogno di tutta una serie di servizi livellati sul loro reddito. La differenza tra la Londra di Dickens e le moderne citta’ globali risiede nel fatto che la prima era all’inizio di un ciclo produttivo che tocchera’ il culmine nel nostro secolo, le nostre citta’ invece sono vittime di un segmentazione strutturale, che non sembra possibile riassorbire. Il conflitto sociale che deriva da questa situazione si svolge quindi non piu’ nella fabbrica o nelle istituzioni chiuse, ma in tutto lo spazio urbano. Gli strumenti di controllo servono a gestire questo conflitto urbano secondo un duplice dispositivo: architettonico e poliziesco. Il primo investe la pianificazione stessa della citta’, costruita avendo in mente il problema della sicurezza. Poliziesco perche’ saturato di normative che determinano chi puo’ usare e come, lo spazio urbano. Tutto questo produce un modello che molti hanno definito citta’ fortezza, sviluppato su tre piani:

1) lo spazio blindato delimitato da cancelli, telecamere, allarmi, cani da guardia, metal detector, protetto con barriere.

2) lo spazio disagevole, nel quale si potrebbe sostare, ma la sosta viene scoraggiata in ogni maniera: ad esempio spazi pubblici senza panchine, sottoposti ad ordinanze antibivacco.

3) lo spazio ansiogeno, saturato di pattuglie, di telecamere, di meccanismi di sorveglianza.

All’interno di questa citta’ si stabiliscono dei percorsi tra i diversi “luoghi fortificati”, in questi luoghi di transito le diverse classi sociali si possono ancora incontrare. Il trasporto pubblico e’ un esempio di luogo di transito. Non e’ un caso che le prime manifestazioni del concetto di “tolleranza zero”, si siano rivolte proprio verso una metropolitana, quella di new york. L’attore di quella operazione fu un giovane Rudolph Giuliani, allora capo della sicurezza della metropolitana. Le politiche di tolleranza zero possono essere lette in questo senso come un tentativo delle classi medio alte di isolarsi all’interno dello spazio urbano, di garantirsi dagli indesiderati. Le citta’ europee non possono essere ascritte in pieno in questo modello. Per ragioni storiche/architettoniche sono spesso dotate di un centro storico, abitato in gran parte da un ceto abbiente per ragioni di prestigio. Questo fa si’ che non si senta l’esigenza di trasferirsi nelle citta’ fortezza. Ma piu’ in piccolo si ricreano dei meccanismi simili, ad esempio a Bologna esistono alcune gated community, palazzi sorvegliati e autosufficienti, dotati di servizi, negozi, ecc… dove la presunta sicurezza e’ un fattore di lievitazione del prezzo. Si tratta dunque di una linea di tendenza che attraversa tutte le grandi citta’ del mondo.

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