Tornelli have politics
“Prima del tornello c’è un ‘degrado’ utile solo a imporre
repressione e militarizzazione.
Dopo il tornello ci sono soluzioni condivise dal basso
sulla gestione dei territori”
Francesca
“The moral order is engineered into their lives
along with the speed limits and the security systems”
J.G. Ballard (Super-Cannes, chapter 29)
di CtrlPlus & Policeonmyback
Nell’agosto del 1980 Langdon Winner si aggirava a piedi, dio solo sa perché, lungo la XX Avenue, una delle tante strade che collegano Long Island con gli altri distretti di New York. Giunto all’altezza della Columbus Street, affaticato per il gran caldo che da sempre caratterizza le estati della grande mela, decise di cercare un po’ di ristoro all’ombra di un ponte rialzato che sovrastava, tagliandola perpendicolarmente, la strada lungo cui stava passeggiando. Tanta era l’afa che i vestiti gli si incollavano addosso, provocandogli un senso di spossatezza che gli aveva reso necessario un prolungamento della sosta. Mentre si godeva la frescura appoggiato ad un muro, incredibilmente pulito per una New York dove il writing era già diventato una delle contro-culture giovanili più in voga, si rese conto che qualcosa non andava. Era fermo nello stesso punto da almeno un quarto d’ora e davanti ai suoi occhi continuavano a sfilare, una dopo l’altra, automobili di diverse marche e modelli: una Lamborghini rosso fiammante guidata da un tizio allampanato che tornava a casa dal lavoro, una Station Wagon su cui viaggiava la tipica famigliola americana (mamma, papà, tre pargoli rompicoglioni e l’immancabile Golden Retriever, il cui muso dall’aria stolida sporgeva ciondolante dal finestrino posteriore), una coppia di placidi pensionati, talmente su di peso che le loro terga occupavano quasi per intero i sedili anteriori della Pontiac GTO 400 di cui erano alla guida. Sedili che, per inciso, erano stati progettati per ospitare dalle tre alle quattro persone.
A colpire Langdon però, non fu tanto questa sfilata di umanità varia, decisamente bianca e benestante, quanto il fatto che, nonostante le lancette continuassero a scorrere sul quadrante del suo orologio da polso, ancora nessun mezzo pubblico aveva fatto capolino all’orizzonte di quel viale trafficato. Sebbene quel giorno non fossero previsti scioperi – la sua condizione di squattrinato dottorando alla New York State University non gli consentiva di avere una macchina tutta sua e, anche per questo motivo, seguiva con particolare attenzione le lotte del sindacato dei trasporti – gli autobus sembravano essersi volatilizzati da quella zona di New York. Incuriosito da quell’inusuale circostanza, Langdon dimenticò il caldo che fino a pochi istanti prima lo aveva attanagliato e iniziò a costeggiare la fiancata del ponte. Percorsi a piedi un paio di isolati, incontrò una seconda strada che scorreva sottostante all’arcata del manufatto. Rimase in attesa per una buona ventina di minuti eppure, anche questa volta, non fu in grado di scorgere all’orizzonte il profilo giallo tipico degli autobus dell’epoca, ma solo vetture dall’aspetto costoso che trasportavano l’élite cittadina verso le loro altrettanto costose abitazioni.
La curiosità si andava trasformando in irrequietezza e Langdon, ormai completamente dimentico della cappa di calore che lo cingeva al collo affaticandogli il respiro, cominciò freneticamente a spostarsi da un ponte all’altro nella speranza di avvistare anche UN solo autobus. La cosa andò avanti per una settimana. Eppure niente. Nada. Zero. Zilch. Zippo. L’infrastruttura di trasporto urbano di Long Island sembrava essere completamente impermeabile al passaggio di qualsiasi autovettura pubblica. All’ultimo giorno di appostamenti, quando stava ormai per arrendersi, si accasciò sfinito al muro del cavalcavia e alzò gli occhi al cielo con disperazione. Fu solo allora che si accorse come quel ponte, al pari di tutti gli altri sotto cui si era acquattato in quei giorni, non raggiungeva neppure i tre metri di altezza. Uno in meno di quanto sarebbe stato necessario per farvi transitare un bus.
Quel metro in meno di mattoni, un dettaglio apparentemente insignificante in una metropoli la cui skyline era tratteggiata da titani di vetro ed acciaio era tutt’altro che casuale. Anzi, si trattava di una scelta politica precisa, mimetizzata sotto le mentite spoglie di parole dal suono asettico come “design” o “specifiche architetturali”. Una scelta che, scoprì Langdon qualche tempo dopo chiacchierando con un anziano operaio polacco che aveva partecipato alla realizzazione di quel sistema di cavalcavia, era stata presa dietro le quinte da “quel vecchio bastardo di Robert Moses”.
“Grand designer” di NYC tra gli anni ’20 e la fine della grande depressione, nonché repubblicano di ferro, Moses aveva deciso che Long Island sarebbe dovuta restare il cuore bianco e protestante della città. Quando si recava a Jones Beach, l’oasi turistica da lui stesso progettata nella parte meridionale del distretto, non voleva fra le palle neri, italiani, minoranze etniche o altri miserabili di tale risma. La massa. Straccioni, pigmei, affamati. Tutta gentaglia che, aveva pensato il vecchio razzista, non aveva soldi neppure per mangiare, figuriamoci per comprarsi una macchina propria. L’unico mezzo che quei rifiuti umani avevano per muoversi in città erano quegli scassoni color ocra che l’amministrazione comunale si ostinava a fornir loro. Ergo, levarseli dai piedi sarebbe stato semplice. Bastava abbassare di qualche centimetro l’altezza dei ponti che circondavano Long Island. Tanto, chi vuoi che ci faccia caso? Come infatti aveva osservato più di un secolo prima Benjamin Constant, gli esseri umani si adattano alle istituzioni pre-esistenti come fanno con le leggi della fisica: in base ai difetti di queste istituzioni, ess* modificano i loro interessi, le loro aspirazioni, a volte l’intero disegno della loro vita.
Come ogni altra tecnologia, i ponti di Moses erano precisamente questo: istituzioni che incorporavano forme di autorità e di potere. Non si limitavano a modificare la disposizione fisica dello spazio urbano, ma ne sconvolgevano l’organizzazione e le possibili relazioni sociali che lo attraversavano e lo costituivano. Tra un metro in più ed uno in meno, passava la differenza tra inclusione ed esclusione sociale, tra una città razzista ed una multiculturale, tra cittadinanza e segregazione. Quei ponti più bassi non erano semplicemente un simbolo di ingiustizia e diseguaglianza sociale. Ne erano, al contrario, una precondizione, un elemento costitutivo: erano un sistema tecnico che incorporava un preciso ordine sociale, perché lo rendeva materialmente possibile, influenzando la distribuzione di potere, privilegio e giustizia all’interno di una comunità di milioni di persone. Il razzismo dell’establishment statunitense veniva così inscritto nel paesaggio e, in quanto tale, assunto come naturale, trasparente, dato per scontato. Un metro in meno di altezza aveva reso quei ponti dei veicoli di interessi di classe e di razza: per alcun*, sarebbero stati un mezzo di collegamento, per altr* una barriera.
Prima di quei ponti c’era un pregiudizio razziale su cui poggiavano lo sfruttamento e la violenza nei confronti di quell* che venivano dopo.
Tecnologia e gestione dello spazio
Tanto il contributo di Francesca sugli avvenimenti accaduti a Bologna nelle scorse settimane, quanto la vicenda che vede come protagonista Langdon Winner (un teorico che come poch* altr* ha contribuito alla comprensione del rapporto di mutua costituzione che si instaura tra tecnologia e società), portano con loro una considerazione che a volte tendiamo a dimenticare. Ovvero, che la trasformazione di uno spazio pubblico, sia esso una biblioteca, una piazza o una rete, quasi mai trova la sua motivazione in mere ragioni di “efficienza” o “funzionalità”. Questa è la storiella, ormai logora, che il capitalismo ripete fin dall’alba della prima enclosure. La verità è che le tecnologie di gestione dello spazio (urbano e digitale, ammesso che questa dicotomia abbia ancora senso), non sono solo una forma di supporto materiale per le organizzazioni che le costruiscono. Al contrario, nel momento in cui queste vengono accettate e “naturalizzate” come parte dell’esperienza quotidiana, producono persone, categorie sociali. Benjamin per esempio, raccontava come le arcate dei negozi parigini del diciannovesimo secolo, con le loro luci soffuse e le loro strutture futuristiche in vetro e ferro, avessero contribuito moltissimo alla creazione della figura del consumatore, alimentando un immaginario fantasmagorico associato all’esperienza dell’acquisto. In maniera simile, Kleiner e Wyrick spiegavano come il processo di centralizzazione che ha investito l’architettura di Internet a partire dagli anni ’90 sia stato un passaggio cruciale nel definire la figura del “prosumer”, ovvero quella di un utente dotato di scarsa autonomia tecnologica e inconsapevole della messa a valore del suo tempo libero. Lo stesso discorso vale per i tornelli che l’AlmaMater ha ripetutamente provato ad installare nella biblioteca di via Zamboni 36.
La responsabile della Legalità del Pd per l’Emilia Romagna ha spiegato bene questo concetto, probabilmente senza rendersene conto, in un post pubblicato sul suo profilo Facebook. A suo dire, nella zona universitaria bolognese imperverserebbe il panico morale, con epicentro localizzato in via Zamboni 36. Un episodio di violenza sessuale; siringhe nei bagni; clima di terrore tale da richiedere cani e guardie giurate; scippi, furti, punkabbestia, ingresso fuori controllo di non-studenti per motivi che esulano dallo studio (tipo.. beccarsi per fare due chiacchiere tra amici?). Visto il “degrado” dilagante, la biblioteca di discipline umanistiche va “protetta” e “sigillata” dall’ambiente circostante “di modo da poter garantire la libertà che si meritano le persone che davvero vogliono studiare, che hanno rispetto per gli altri e per gli spazi che hanno contribuito a pagare” (cit. dal post originale).
Questo tipo di ragionamento è un grande must della nostra epoca. Si chiama soluzionismo tecnologico e affonda le sue radici nella credenza secondo cui la tecnica, in questo caso una tecnologia di sorveglianza e gestione di accesso ad un luogo pubblico, possa rappresentare una soluzione semplice a dei problemi sociali complessi. A volte basta un click, altre un’app, altre ancora un tornello. Poco conta che i problemi da affrontare siano profondamente diversi l’uno dall’altro. Che si tratti di tossicodipendenza, violenze sessuali o un presunto uso “improprio” della biblioteca, la risposta è una sola. Ovvero un dispositivo che placa la paranoia securitaria e rafforza l’idea che chi si “comporta bene” e non ha nulla da nascondere, non avrà alcun problema ad accettare restrizioni alla propria libertà in nome della propria sicurezza contro i comportamenti “devianti” in generale. Secondo questo ragionamento, in presenza dei tornelli persino uno stupro si sarebbe potuto evitare, come se il possessore di badge, cioè lo studente pagante, fosse un soggetto “naturalmente” buono. Tutti gli altri, quelli che non pagano, sono immediatamente identificati come motivo di degrado.
Allora, al di là delle sciocchezze pubblicate dai quotidiani nei giorni successivi l’assalto della celere al 36, il vero tema di discussione pare essere un altro. Ovvero, che cosa è, o dovrebbe essere, una biblioteca in una città universitaria come Bologna? E chi dovrebbe o potrebbe legittimamente attraversarla? E, di conseguenza alle due domande precedenti, qual è la relazione di tale spazio con il contesto urbano che lo circonda?
Chi la mattina del 9 febbraio ha smontato i tornelli e riaperto il 36 per studiare, probabilmente immagina una biblioteca come un luogo inserito nel contesto di un’università aperta, accessibile, luogo di confronto, attraversamento e socialità dove la sicurezza non è garantita dalla presenza di divise e barriere, ma dalla socializzazione dell’antifascismo, dell’antirazzismo, dell’antisessismo e della cura collettiva degli spazi come pratica di autogestione quotidiana. Per dirla con le parole di un intellettualmente onesto editorialista del Foglio, gli studenti contrari ai tornelli «di fatto hanno protestato contro la prospettiva che in Italia l’istruzione diventi faticosa ascesa a competenze ristrette, come avviene in queste cinque inaccessibili istituzioni o in tutte le altre che vogliano garantire il diritto allo studio a chi è dentro». Secondo i sostenitori dei tornelli invece, la biblioteca non deve essere un luogo aperto né uno spazio pubblico, ma uno spazio deputato all’utilizzo esclusivo degli studenti e dei membri del mondo accademico che, sulla base del merito “conseguito” dal loro titolo, possono fruire dello spazio della biblioteca per fini precisi e modalità prestabilite che hanno la priorità su tutto ciò che esula dal mero fatto di studiare per passare un esame.
Il sapere così concepito, cioè un bene acquistato, diventa un diritto privatistico ed individuale, alla stregua di una proprietà privata (e quindi, all’occorrenza, da difendere con barriere e manganelli). Per sillogismo, lo studente pagante dotato di badge che vuole “solo studiare” diviene un soggetto “morale”, socialmente “legittimo” che, in quanto tale, ha il diritto di “consumare” un sapere pagato fior fior di quattrini. Una figura che, pertanto, si staglia sopra la massa “indistinta”, brulicante e caotica che popola la città universitaria circostante. Questa, se non può essere eliminata tout court, deve comunque essere irregimentata, sorvegliata, “tenuta fuori” dalla biblioteca. Lo studente “perbene”, ça va sans dire, deve esserne difeso e separato, non solo soggettivamente ma anche fisicamente e visivamente.
Et voilà, l’ennesima tragedia dei commons è servita. Uno spazio percepito come di tutt* ma utilizzato da molti gruppi e individui secondo logiche diverse e anche incompatibili tra di loro, alla fine viene colonizzato da coloro che nutrono su quello spazio l’interesse privatistico più forte. Il tornello, in questo senso, assume la stessa funzione dei ponti ribassati che, come Winner aveva annotato, cingevano Long Island in modo da evitare l’accesso dei mezzi di trasporto pubblici, di fatto “sigillando” quello spazio urbano dall’accesso di tutti quei soggetti “indesiderabili” su base di classe e razziale, e definendone per converso l’attraversamento legittimo da parte di altri soggetti.
Tornelli have politics, quindi, in quanto tecnologie di gestione dello spazio che disegnano un modello di città escludente. Chi, in nome della “sicurezza” e dell’accesso privatistico allo spazio urbano ed al sapere continua a perorarne l’uso, anche a prezzo di manganellate, è da considerarsi esso stesso il tornello. Una figura che andrebbe politicamente divelta per difendere il diritto alla libertà di dissenso, di confronto e di attraversamento degli spazi comuni.